Gli elementi culturali contano nell’evoluzione di un sistema territoriale se profondamente legati al modo con cui leggiamo la nostra realtà e nel modo in cui vogliamo costruire il nostro futuro.
Gli artisti spesso ci aiutano a fare un salto di qualità nella percezione di ciò che abbiamo intorno, nel nostro modo di vivere e nell’immaginazione del mondo che verrà.
Un decalogo partecipato costruito con le parole e le riflessioni di tantissime persone che hanno partecipato in questo tempo difficile di pandemia a percorsi e attività per prendersi cura delle bambine e dei bambini del territorio della diocesi di Cerreto- Telese- Sant’Agata de’ goti.
Dieci parole, dieci riflessioni , dieci opere co- costruite per narrare un percorso che parte dalla fragilità educativa di un territorio per trasformarsi in CURA.
Un processo di animazione alla comunità segnato dalla pandemia ma che ha permesso ad insegnanti, bambini, richiedenti asilo, artisti, sindaci, esperti di percorsi alla genitorialità, fotografi, esperti di social network, di politiche attive del lavoro, di agricoltura 4.0 di confrontarsi e attivare una riflessione sul prendersi cura dei bambini e delle bambine del territorio.
Le parole sono state scelte da giovani, bambini e cittadini con un metodo casuale con un’azione via social.
Mirella Maturo, responsabile progetto labkids
I sogni sono il motore della vita, non importa quanto grandi siano, bisognerebbe sempre assecondarli, e io ci ho sempre provato.
L’Italia è sempre stata patria di sognatori, anche perché, in un paese così povero di opportunità reali di realizzazione, non resta molto, se non sogna- re, immaginare e simulare ciò che si sogna.
In questi anni, parlando con amici e colleghi universitari, ho capito che nessuno parla mai dei propri grandi sogni, quelli si chiudono a chiave nel cassetto, si ridimensionano, e diventa tutto una battaglia all’obiettivo più raggiungibile, allo stipendio per l’indipendenza economica.
Io stesso lo faccio.
Il mio sogno sarebbe quello di raccontare quello che vedo e sento, nel mio modo, che sia giusto o sbagliato, tramite la penna o tramite la voce, come giornalista o cantante. Se da una parte, però, sono bloccato dalla paura di assumersi la responsabilità di quello che dovrei raccontare e, dalle conseguenze che altri giornalisti subiscono per i loro racconti del reale, dall’altra sono schiacciato dalla consapevolezza che artisti non si ci diventa con un concorso pubblico o un talent, e che la musica è più business che arte ormai, quindi resto fermo e immobile, impantanato nei miei sogni, ad un passo dalla strada che vorrei percorrere, faticando per prepararmi ad una vita che forse non si realizzerà mai.
Ogni tanto penso che realizzare un sogno, a volte, può essere anche deludente, dato che si sogna quello che non si ha e, di cui, spesso, si conosce poco o nulla.
Domenico Izzo, studente
SOGNO
di Irene Nhien (tecnica mista)
SGUARDO
di Alessio Verna (Collage digitale)
Lo sguardo non si ferma all'atto di "guardare" fine a se stesso, ma ci permette di aprire la mente e la coscienza. Per molte tradizioni gli occhi "sono lo specchio dell'anima", nel senso che riflettono in maniera immediata le nostre emozioni positive o negative che siano.
La vista e lo sguardo si collegano inevitabilmente agli altri sensi.
Volgere lo sguardo alle persone in difficoltà significa tendere loro la mano, accompagnarle e guidarle, donare loro abbracci e calore fraterno.
Volgere lo sguardo significa mettersi in ascolto dell'altro e provare empatia, andare oltre le apparenze e scegliere di percorrere un pezzo di strada insieme. Noi lo abbiamo fatto anche aderendo, tramite la nostra Caritas diocesana, al progetto “APRI (Accogliere, Proteggere, Promuovere, Integrare) - La Comunità al centro” di Caritas italiana, aprendo così le porte della nostra casa e del nostro cuore ad un fratello straniero, per favorirne l'integrazione, affiancandolo durante un più specifico percorso di autonomia, facendogli da “famiglia tutor”.
Volgere lo sguardo significa provare gioia nel vedere i suoi progressi con l'italiano, a scuola guida, in ambito lavorativo.
E la bellezza di un sorriso ricambiato ci dà la certezza che abbiamo volto lo sguardo nella direzione giusta.
Francesca e Antonio, con i piccoli Chris e Aron, famiglia tutor di Seedy
NOI
di Syntropychaos (collage tecnica mista)
"Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura.
Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così.
Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca.
Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi.
Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo.”
. NOI ci fa differenti da LORO ma mai troppo diversi da non immaginare un Noi ancora più vasto che contenga TUTTI. NOI è la declinazione ultima del senso di civiltà: della capacità cioè di avere fiducia, l'uno verso l'altro, fiducia nell'onestà di ciascun uomo che dà a ciascun altro ogni diritto che pretende per se stesso. La fiducia nel loro comune futuro. NOI è la sola configurazione possibile di felicità. NOI è la mano aperta di IO, l'essere umano.
Maria Venditti, amministratore comunale di Telese Terme
UN'ALA DI RISERVA
di Biodpi (collage digitale)
Il prendersi cura è un atto creativo, è un gesto che modifica l’esistente generando bellezza. È un atto rivoluzionario che modifica lo scorrere grigio delle cose con i colori dell’attenzione, dell’ascolto, dell’amore.
La cura, per essere tale, deve tradursi in gesti, in un’attenzione continua- mente centrata sull’altro da sé, in una lettura minuziosa delle debolezze dell’altro ma priva di ogni giudizio. La fragilità di chi mi sta accanto è un dono da accogliere e custodire. Come la mia fragilità.
Le nostre case, le nostre comunità, luoghi in cui si pratica l’arte della cura, devono essere luoghi di protezione. Non campane di vetro sotto cui ripara- re dalla vita ma luoghi in cui la presenza degli altri rende più forti, più capaci di reggere l’urto, di affrontare le paure, i turbamenti.
Siamo esseri fallibili e per questo meravigliosamente preziosi, come gli oggetti più fragili e perfetti. Inesorabilmente fragili. Tutti. Chi si prende cura assieme a chi è curato. Ogni volta che penso alla parola fragilità, mi vengono in mente quegli enormi pacchi tetragoni al cui interno si nascon- de, si preserva, qualcosa di piccolo, di fragile, di prezioso. Accanto all’eti- chetta fragile, è apposta un’altra etichetta “maneggiare con cura”. È lì che comincio a pensare a quanto dolore provochiamo nell’altro quando non cogliamo il senso delle sue ferite.
E la cura diventa il luogo in cui nasce la speranza. Lì, in quel luogo, uomini ugualmente fragili possono sollevarsi a vicenda. La cura che genera cura. Sollevare vuol dire innanzitutto farsi vicini, diventare prossimo. Vicini al cuore dell’altro, ai suoi angoli bui, alle sue facce più difficili da guardare, più fastidiose. Avvicinarsi senza reticenze e paure, come Francesco d’Assisi al lebbroso, nella capacità e nella stupenda follia di chi sa cogliere l’altro senza remore. E poi chinarsi. Per sollevare devi necessariamente chinarti, cambiare prospettiva e livello, inginocchiandoti, perché non ci si può sollevare che insieme. “Non c'è in un'intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi”.
Ma si solleva anche dando speranza. La speranza è il motore ed il fine di ogni prendersi cura, è ciò che contro tutto e tutti mi spinge ancora a dire “ne vale la pena”. La speranza è impegno quotidiano, scelta, missione. È un bisogno di futuro che nasce da un’unica, grande consapevolezza: “sei un essere speciale”. Ogni persona dovrebbe essere riconosciuto e sentirsi così, per quello che realmente è: un essere speciale.
L’incontro con l’altro pretende la nostra attenzione totale, un’attenzione che esige di venire a contatto con l’altrui, ma prima ancora con la propria fragilità. La mistica Simone Weil lo ricordava con queste parole: “ogni volta che facciamo veramente attenzione distruggiamo una parte di male che è in noi stessi”.
E quest’attenzione richiede due presupposti fondamentali:
il silenzio, il silenzio necessario ad ascoltare il battito di un cuore, non il mio, ma il cuore dell’altro. Perché è nel silenzio che accogli, è nel silenzio che ti prendi cura;
la pazienza, che nel suo senso primario è “soffrire con”, è la passione. È la pazienza del contadino che aspetta che il tempo faccia il suo mestiere, è la pazienza del genitore, la pazienza dell’educazione. La pazienza di chi accompagna nel rispetto dei passi dell’altro: se tu ti fermi, mi fermo con te. Perché la strada del prendersi cura è un cammino che va percorso insieme, è un cammino di ricerca di senso, di costruzione del Sogno, è progetto, è Essenza.
Don Mimmo Battaglia, Arcivescovo metropolita di Napoli
CAREZZA
di Carmen La Rocca (illustrazione digitale)
"La pelle è uno degli organi sensoriali più importanti, grazie al quale si stabilisce un contatto e si percepiscono le sensazioni: ad esempio attraverso le carezze. La carezza è un gesto tanto semplice ma infinitamente ricco di significato che provoca innumerevoli sensazioni. Una carezza stabilisce un legame tra due persone, trasmette gioia, affetto, amore, riconoscenza; chi la riceve acquista fiducia in se stesso ed impara ad amare se stesso e, di conseguenza, gli altri. Accarezzare ed essere accarezzati è un modo per diffondere l'amore.
La carezza non è solo un gesto, è un linguaggio che arricchisce sia chi lo dona sia chi lo riceve."
Mamma di… Fabrizio
SEMPLICITA’
di Gianluca Raro (illustrazione digitale)
La semplicità è un rifugio al dimenarsi dell'anima, un rifugio caldo.
Le cose più buone al palato sono le cose semplici che non mischiano i sapori.
La semplicità è degli animali che non conoscono la cattiveria se non sono manipolati da uomini complicati.
La semplicità è un bimbo che gattona senza la fretta di camminare.
La semplicità è quando osservi la forma di un seme prima di piantarlo nella terra e provi ad immaginare dove sono tutte le parti della pianta che poi esploderà da una forma così piccola.
La semplicità è lasciare che la terra faccia tutto da sola, con le sue rocce, i suoi batteri, i suoi abitanti buoni e cattivi, e aspettare che i buoni vincano sui cattivi senza aiuti e senza drammi se questo non sarà. La semplicità è la natura che non sbaglia mai se noi con i nostri errori non la costringiamo a sbagliare.
Michele Ciervo, #OrtiAperti
FIGLIA DI POSEIDONE
di Sofia Maglione (Matita, acquerello e acrilico su carta)
Educare.... trarre fuori... porre la lampada sopra il moggio affinché i talenti donati possano brillare di luce propria. E un insegnante si emoziona nel pensare di essere proprio lui il custode della lampada.
Ogni alunno che ci viene affidato è un dono, ciascuno illumina il mondo a modo suo, ma la sua luce è sempre speciale!
Ester Miranda e Luca Farese, insegnanti
STRADA
di Karol (Karolina Klaudia Pieciak) (Acrilico su tela)
Mio nonno mi raccontava spesso di un contadino del suo paese che, per ringraziare un politico fautore della costruzione della strada che collegava la sua fattoria con il centro del paese, esordiva dicendo “ci avete messo in mezzo a una strada. Grazie”. Ecco, le strade sono questo, sono uno strumento per costruire una comunità, per raggiungere agilmente chi è più lontano facendolo così sentire parte del mondo. Le strade sono i mattoni fondamentali per l’evoluzione dell’uomo della società perché solo attraverso di esse possiamo conoscere, migliorare ed imparare. Ecco perché dobbiamo smettere di muoverci ed iniziare a viaggiare, perché solo così possiamo costruire un futuro, e per fare questo dobbiamo metterci tutti in mezzo a una strada.
Ennio, ingegniere informatico ed educatore
MIGRANTI DA 1.800.000 ANNI
di BIODPI (stencil su carta)
La strada è e resterà per me la più grande scuola.
A16 anni ho deciso, insieme a due miei cari amici d'infanzia, di lasciare il Gambia, il mio Paese d'origine, inseguendo il sogno di un futuro migliore.
Era il 2016, in Gambia la vita era difficile, ogni giorno bisognava fare i conti con le ingiustizie, i soprusi, la violazione di qualsiasi diritto umano, le angherie da parte degli uomini legati al dittatore Yahya Jammeh.
Ho attraversato il Mali, il Burkina Faso, il Niger.
Da Agadez a Saba ho percorso il tratto di rotta nel deserto chiamato “la strada verso l'inferno” che noi migranti dobbiamo affrontare per raggiungere la Libia.
Ho impiegato circa 7 mesi, il viaggio è molto difficile, ed in alcuni tratti molto pericoloso. A Zavia, i libici mi hanno catturato, picchiato e rinchiuso. Mia madre per farmi liberare ha dovuto contrarre molti debiti, che a distanza di 5 anni stiamo ancora pagando e si è vista costretta a vendere la nostra unica casa.
Quando ero in Gambia mai avrei immaginato la mia vita attuale. Sono mondi talmenti distanti...
La strada mi ha fatto crescere.
Sulla strada sono caduto ma ho trovato la forza di rialzarmi, lungo il mio cammino non ho incontrato solo aguzzini ma grazie a Dio anche tante persone disposte ad aiutarmi.
La strada è il ricordo degli amici che ho lasciato nei lager libici e di quelli che ho perso durante la traversata.
La strada sono le persone che mi hanno accolto e che mi hanno fatto sentire come a casa;
la strada sono i fratelli che ho trovato a Cerreto, a Dugenta,
la strada è Don Mimmo che si è preso cura di me e che mi ha insegnato tanto.
La strada è il sogno di ritornare in Gambia e di trovare un Paese libero, libero di gestire le proprie ricchezze, libero di costruire il proprio presente ed il proprio futuro, senza né padroni né servi, libero come l'Africa desiderata da Thomas Sankara.
Muhammed Ceesay, richiedente asilo e beneficiario del progetto apri
SUONNO D'AJERE
di Salvatore Troiano (Gress ferro e filo)
Felicità
31 giorni distanti, costrette a non dormire nella stessa stanza, a non mangiare allo stesso tavolo, neanche i nostri sguardi hanno potuto incrociarsi. I nostri corpi distanti ma le nostre anime non si sono mai allontanate. Un’unica speranza ci ha accompagnate in questo periodo: quella di poterci abbracciare il prima possibile. È arrivato anche quel giorno, il giorno in cui ho potuto finalmente stringere a me mia sorella. E questa è felicità, felicità nel ritrovarci unite, felicità per aver superato una condizione che mai avremmo potuto immaginare potesse accadere proprio a noi.
“Anche se la felicità ti dimentica un po’, tu non dimenticarla mai del tutto”
-Jaques Prévert
Mara e Simona Cerulo, sorelle al tempo del Covid19
SENZA TITOLO
di Valentina De Vincentis (tecnica mista)
Artigiani
“Siamo tutti artigiani”
Da poco è passato il Natale, ed in noi sono ancora vive le immagini del presepe, ove la gran parte delle statuine raffigurano gli artigiani, con movenze restate in gran parte immutate nel corso dei secoli.
Ognuno di noi, almeno per una volta, con la fantasia si è proiettato in una di quelle casette, immaginando di essere un fabbro, un falegname. Colori, volti e odori del presepe ci riconducono al concetto di focolare domestico, dove l’artigiano viene raffigurato quale cornice della natività, vivendo tali emozioni si riassapora il calore della famiglia...non si cerca il caricabatteria dello smartphone...ma l’abbraccio rigenerante dei figli, lo sguardo amorevole dei propri cari.
In ogni lavoro, in ogni momento della vita è sacrosanto plasmare opero- samente l’esistente, per renderlo più funzionale al reale, essere artigiani in qualsiasi professione rappresenta lo strumento che inibirà la deriva dell’attuale società.
Creare, modellare, unire, rispettare, sono i verbi dell’artigiano...i verbi del nostro essere...del nostro quotidiano.
Ogni uomo, indipendentemente dal lavoro svolto, deve creare le migliori condizioni di vita per sè e per gli altri, deve unire ciò che si è staccato, spezzato, allontanato, deve modellare il suo carattere nel rispetto proprio e del prossimo.
Siamo tutti artigiani, ognuno di noi può e deve modellare, unire, rispettare il mondo, svincolandosi dal ruolo di semplice comparsa, di assuntore di realtà non condivise.
Non possiamo, a questo punto, non citare il grande assertore di tali valori:“... Il mondo non ha bisogno di parole vuote, ma di testimoni convinti, di artigiani della pace aperti al dialogo senza esclusioni né manipolazioni...” (Papa Francesco).
Giuseppe Gaetano, sindaco di Gioia Sannitica